di Mario Chiodetti
«Guttuso? Il più bravo cartellonista italiano della seconda metà del ‘900. Qualche volta anche pittore. Per le copertine della Domenica del Corriere non avrebbe avuto rivali».
Philippe Daverio parla a ruota libera, con la consueta verve e passione di un Renato Guttuso che conobbe da ragazzo a Roma. «Diciamo che non era un uomo antipatico, simpatico no, ma con una sua intensità. Parlava quasi solo di politica, era molto coinvolto e comunque non è stato un “pittore da parete” o un intellettuale spento».
Trent’anni fa l’artista di Bagheria mancò nella sua casa romana di via del Grillo 5 in circostanze piuttosto misteriose (tanto da ispirare al giornalista e scrittore Leonardo Coen un romanzo dal titolo “La morte del maestro – I misteri di casa Guttuso”) ma la sua presenza a Varese si era già diradata da tempo, e la villa di Velate chiusa e malinconica.
A Daverio, critico d’arte e polemista di vaglia, chiediamo cosa rappresentò Guttuso nel suo tempo e, se oggi fosse vivo, cosa dipingerebbe.
«Oggi sarebbe in crisi nera. Ebbe la fortuna di essere un realista in un’epoca consonante alla sua fede politica. L’Italia di allora era fatta di un conformismo in lenta evoluzione e lui era utile a questo cambiamento. Aveva avuto una buona origine pittorica e fino al ‘47 mostrava una grande figurazione espressiva. Poi si “picassò” come tutti, ma gli rimase il suo grande talento di illustratore».
Quanto gli fece bene l’ambiente di Velate?
«Gli diede grande tranquillità. Lui era un uomo del sud e la moglie Mimise lo “teneva in ordine” anche se Renato aveva già Marta Marzotto come fidanzata. Riflessione e approfondimento gli permisero di lavorare alle grandi tele che gli diedero la fama. Era un uomo ricco, di successo, da siciliano chiedeva rispetto».
Varese gli diede la cittadinanza onoraria e gli intitolò un viottolo a Velate. Nient’altro. Non pensa sia un po’ poco?
«Ma Varese fa poco o nulla comunque, non soltanto per Guttuso! Basti dire che non ha saputo far sua la collezione Panza, quella “vera”, con i Rothko, per esempio. La villa e la città avrebbero avuto centomila turisti americani all’anno».
Ritiene che l’acrilico di Guttuso alla Terza Cappella del Sacro Monte possa essere un ulteriore veicolo di rilancio della nostra montagna?
«Il Sacro Monte esige già rispetto come luogo di culto, ma da lì a dire che Varese sa fare comunicazione ce ne corre. Anche l’Expo non ha saputo dare visibilità alle bellezze della Lombardia, meglio si fece nel 1906 con l’Esposizione universale. L’acrilico è una “guttusata”, la sua parte più fiacca. Molti artisti del ‘900 hanno cercato inutilmente di misurarsi col passato e Guttuso è uno di questi. Questo “gioco matissiano” riuscì forse solo a Francis Bacon e Roy Lichtenstein con il Pop americano».
Roberto Cecchi fece il suo nome come possibile consulente per la rinascita del Sacro Monte: che ne pensa?
«Cecchi lo conosco da una vita, addirittura da quando lavorava a Venezia, ma non lo sento da parecchio. Mi piacerebbe venire a Varese a parlargli, secondo me potrebbe fare molto per la città. Varese avrebbe molte carte da giocare, ma deve, e subito, recuperare l’allure signorile che un tempo la distingueva, con almeno quindici ville meravigliose che costellavano il percorso da Masnago a Gavirate. Oggi l’ambiente è mutato, ma la città deve diventare internazionale e più snob, e ci vogliono volontà e passione che finora non si sono viste. Non mancano invece le aziende che potrebbero dare una mano, Varese ha bisogno di una nuova mondanità. E poi sarebbe ora di sistemare il complesso di Campo dei Fiori, forse l’esempio più eclatante di liberty italiano e tra i luoghi più affascinanti della nostra regione. Quando ero assessore a Milano dicevo: il lago Maggiore incomincia in piazza Cadorna, perché la gente deve avere la possibilità di arrivare dalla città ai luoghi di svago con i mezzi pubblici e con facilità di spostamento. A Varese ciò era possibile agli inizi del ‘900, con treno tram e funicolari. Oggi non più. Ma la colpa non è tutta della città, molta è della Regione, il nuovo assessore alla Cultura, Cristiana Cappellini, forse non sa nemmeno dove sia Varese. Lì manca da tempo un assessore di spessore, ma il mio convincimento è che della cultura non importi nulla a nessuno».
Tornando a Renato Guttuso: c’è ancora oggi qualcuno che lo colleziona?
«Certo, ma il valore dei suoi lavori non è più quello di un tempo. L’euro, che ha mandato alle stelle altri pittori, a lui ha nuociuto. Poi Guttuso avrebbe bisogno di una importante rilettura critica, che gli eredi non hanno saputo fare. Metteva passione vera e molta materia nei quadri, raccontava pezzi di storia come un romanziere e non è un caso se molti uomini di lettere, da Dante Isella a Piero Chiara, Testori, Soavi e Piovene, lo frequentavano a Velate. La sua Stiratrice è un pezzo di film neorealista che avrà forza anche tra quattro secoli!».
Tra i tre luoghi di vita e di lavoro di Guttuso ci fu Velate: lo racconta Giorgio Soavi
Pubblichiamo la parte dello scritto di Giorgio Soavi riguardante la sua visita all’atelier di Renato Guttuso a Velate. Il testo è tratto dal libro «Nei luoghi di Guttuso – viaggio in Sicilia, Roma e Velate», edito nel 1979 da Franca May.
«I luoghi di vita e di lavoro di Renato Guttuso sono tre. Due, dominanti: Roma e Velate; terzo, complementare, Palermo, che è anche la sua patria. A Roma e a Velate Renato vive in una vera e propria casa, atelier e servizi. A Palermo, quando non viaggia per l’isola, abita a Villa Igiea o all’Hotel delle Palme. A Velate come a Roma lo serve un cameriere, Aldo. La villa di Velate ha due atelier ma poi ce n’è uno in fondo al giardino per i grandi quadri. Guttuso è pittore epico e agricolo; politico e di passione per l’ideale amoroso; ha dipinto disegnato e ritratto gli amici e i protagonisti di quella parte dell’avventura umana da lui ritenuta dominante, in omaggio o in rivolta, allo stile e al pensiero dei suoi capi o ispiratori che fossero. È il pittore più amato o invidiato della sua generazione che, se non è stata avara di eccellenti artisti, ha certo offerto a lui soltanto il ferro, il fuoco e la bravura per essere all’altezza dei suoi sogni. (…)
Il pittore siciliano è per la moltitudine privata. Dignitari, amici, postulanti, politici, segretari, alte cariche dello stato, lacché e simulacri di modelle che furono, tutti trovano asilo nelle orecchie e nel cuore di Renato. Nel libro della sua storia l’umanità può ancora farsi sentire presso di lui anche se è difficilissimo comunicare perché non ha telefono. Il dramma del telefono che non c’è, rende difficile l’appuntamento. Ma la tenacia rende irriducibili i suoi ricercatori. A Velate, davanti al cancello di casa, la gente è in attesa come di un pediatra di chiara fama. Perché tutti i bambini dai quaranta anni in su vogliono avere qualche briciola a favore di loro stessi o di lontane congregazioni: molta gente si chiede se Renato farà quel lavoro che essi vorrebbero. Il mese scorso a Velate sopra Varese, siamo stati insieme fino alle due di notte. Lui beveva il suo whisky, io il vino. L’indomani mattina, alle otto e mezza, eravamo in cucina a fare colazione, poi giù di corsa nello studio a veder nascere i disegni preparatori per i grandi quadri e acquarelli di omaggio a Picasso che Renato sta costruendo in questa estate 1973. (…)
Guttuso disegna con l’attenzione serena di un alunno che sta eseguendo un compito che può riservare sorprese. Lavora con calma e si lascia distrarre spesso dagli amici, i quali, sapendo di seccarlo, non esitano a seccarlo».
Arrivò qui con un’idea chiara
Renato Guttuso è arrivato a Varese con un’idea chiara: vendere la villa che sua moglie Mimise aveva ereditato a Velate. La villa è quella che ancora oggi si fa riconoscere dalle iniziali in pietra dell’ingresso: Mld, Maria Luisa Dotti. Direi che l’incontro con il Sacro Monte, con il verde, il grande verde così diffuso e intenso di qui, abbia di colpo fatto innamorare il pittore. La casa non si vendette e lì Renato ebbe casa e studio. Solo negli anni successivi costruì nel giardino sottostante un grande atelier dove lavorò per molti mesi l’anno. A Varese trovò la compagnia di Elio Vittorini che frequentava casa Varisco alla Settima Cappella del Sacro Monte, e di Guido Piovene al «Bidino» di Induno Olona.
Così trovò con facilità le occasioni d’incontro con l’intellettualità locale e non mancarono certo le visite di molti artisti milanesi e no, registi, attori, critici.
Guttuso e sua moglie ricevevano con grande spontaneità, Renato era solito dipingere anche in presenza di molti amici. Ricordo Mimise cantare «Il piscinin», antica canzone milanese del Barpapedana, e Renato, che possedeva una bella voce intonata, farle eco con i canti siciliani. Lo rivedo al lavoro con l’immancabile sigaretta e l’altrettanto immancabile whisky. La sua presenza era una testimonianza di libertà creativa con un’umanissima disposizione all’incontro e alla discussione. A Varese ha lasciato molti quadri che sono nelle case degli amici, a testimoniare un periodo felice e nuovo della sua arte. Fu un amico prezioso, generoso, accattivante. Di vivacità e spontaneità davvero sorprendenti per noi lombardi. Come risaputo Guttuso ha lasciato una testimonianza della sua arte alla Terza Cappella con una straordinaria «Fuga in Egitto». Dopo Varese era da immaginare che dovesse ritornare alla sua Roma di sempre, alla sua Sicilia, quella dei suoi grandi quadri di colori accesi e bruciati. La sua morte fu cosa di altri non della città.
Beppi Bortoluzzi
Cecco Bellosi: Potere Operaio tentò di rapinare il «ricco di sinistra»
Una notte di primavera del 1972 alcuni militanti di Potere Operaio tentarono una rocambolesca operazione nella quiete di Velate: entrare armi in pugno nella villa di Renato Guttuso e rubare tutti i suoi quadri. L’ha raccontato Cecco Bellosi, 68 anni, una decina vissuti in carcere dopo la condanna per attività sovversiva, un passato in Potop e poi nelle Br e oggi attivo nelle comunità di recupero di tossicodipendenti e malati di Aids. Nel ‘72 faceva parte di «Lavoro illegale», gruppo clandestino che doveva trovare fondi per Potop, procurare armi e nascondere i ricercati. I militanti erano in stretto contatto anche con Giangiacomo Feltrinelli, allora capo dei Gap, ma l’editore morì il 15 marzo di quell’anno, dilaniato dalla bomba che stava innescando a Segrate. Così Bellosi e compagni, senza soldi, pensano, grazie all’idea dell’amico Sirio, di svaligiare villa Guttuso e piazzare i quadri ai mercanti svizzeri, rubando a un «ricco di sinistra» come il pittore di Bagheria. In cinque arrivano a Velate su una Cinquecento rubata a Como, dopo che una compagna giovane e carina per giorni aveva consegnato grandi mazzi di fiori per il maestro e visitato la casa per conoscere l’ubicazione dei quadri. Bellosi e altri due entrano nella villa passando dai giardini vicini e, mentre lui rimane di guardia, i compagni incominciano a tagliare con cautela le tele e arrotolarle. Dopo mezz’ora il guardiano si accorge e si presenta con un fucile. I due compagni di Bellosi escono di corsa e lui rimane armato di una Walther Ppk a proteggere la fuga, intimando al custode di gettare il fucile. Il sorvegliante ubbidisce e torna in casa, il commando fugge a mani vuote. Nessuno inseguì i maldestri ladri e Guttuso non denunciò neppure l’accaduto, tanto che la notizia non fu mai divulgata. (m.c.)