La prova del nove sarà oggi, con la festa dell’Ascensione che in Svizzera coincide con una giornata di riposo e di gite fuori porta. Dalla dogana in giù di solito si formano lunghe code di ticinesi in viaggio verso il Varesotto, con zone turistiche e supermercati affollati. Ma secondo la referente cittadina di Fipe, la Federazione italiana pubblici esercizi di Confcommercio, Antonella Zambelli, i nostri vicini stanno snobbando in particolare il capoluogo come meta di shopping e di tempo libero, preferendo altri angoli. Colpa della viabilità caotica, della mancanza di parcheggi o dell’offerta sempre più ampia in periferia? Difficile dirlo, ma sembra che l’assenza pesi in bar, ristoranti e negozi della Città Giardino.
«Forse i clienti svizzeri si sono spostati e vanno a comprare altrove, spinti dal fatto che si sono perse le boutique e i negozi unici, diversi dagli altri, a favore delle catene – sottolinea Zambelli -. Di sicuro mancano in questo ultimo periodo: forse si fermano nei grandi centri dove trovano tutto. Per quello come associazione combattiamo da tempo contro il proliferare dei grandi centri commerciali, che catalizzano l’attenzione grazie alle comodità. Risultato: Varese è sempre più vuota, ci sono dei pomeriggi in cui si fatica a vedere in giro qualcuno».
Certo il confronto è impari: è sempre più faticoso entrare in centro, trovare parcheggio e monetina, girare per diversi negozi con le borse in spalla, ricordarsi della scadenza del ticket… che non raggiungere i mega centri commerciali dove l’accesso è libero, gratuito e a portata di mano. Quindi il discorso si allarga allo svuotamento dei centri storici: nei giorni scorsi si è già ampiamente parlato della crisi del commercio varesino, che archivia un primo quadrimestre difficile su tutti i fronti, con l’esclusione, si diceva, dei pubblici esercizi. Ma anche su questo punto Antonella Zambelli mette i puntini sulle “i” contro facili entusiasmi.
«In realtà la crisi non è finita, anzi continua a sentirsi anche per la nostra categoria, le persone spendono sempre meno, alcuni locali di tendenza sono pieni, certo, ma solo in alcuni giorni della settimana, venerdì e sabato, e non con continuità – aggiunge -. Bisogna poi pensare che c’è un turn-over molto forte: alcuni locali chiudono, altri riaprono, ma le statistiche andrebbero fatte non sui 12 ma sui 18 mesi. Perché è dopo un anno e mezzo che si vede se un’attività ha i numeri o no, quando si inizia a pagare l’Iva e le tasse. Prima sembra tutto facile. Spesso poi chiusure e aperture si contano nello stesso anno e i numeri vengono falsati per questa coincidenza. Una beffa se si pensa che molte imposte o l’occupazione del suolo pubblico sono state già pagate: a volte si preferisce non chiudere subito per risparmiare almeno la spesa finale».
Un quadro tutt’altro che rassicurante per diverse generazioni commerciali: «Le attività storiche stringono i denti per resistere, spesso mettendo in campo risorse proprie accumulate negli anni più positivi. Quelle nuove sanno che i margini si sono ridotti e che il futuro è incerto.
Poi iniziano ad arrivare le tasse dopo un anno e mezzo e quello, ripeto, è il vero spartiacque: ci sono attività che pagano decine di migliaia di euro per dehors, ombrelloni e rifiuti. C’è anche da contare la concorrenza di sagre e feste di paese che con la bella stagione iniziano. Fipe chiede una legge per limitare il periodo a 15 giorni, oltre bisogna rispettare le ferree regole della ristorazione. Da fuori non ci si rende conto di quanto sia difficile aprire bottega ogni giorno».