di Max Lodi
C’era una volta la Varese che si adoperava per promuovere se stessa. Non senza contrasti, incomprensioni, polemiche, però con la capacità essenziale/conclusiva di far sintesi tra gli opposti e di proporre un’immagine positiva, apprezzata, esportabile. Fu per esempio quanto accadde di questi giorni nell’estate di 115 anni fa, stagione in cui venne organizzata l’Esposizione universale che terminò in gloria pur avendo vissuto momenti definiti, ex post, ingloriosi dagli stessi protagonisti. Un rewind del nastro memorialistico, per capirci. Nel gennaio del 1901 vennero messi a punto i due comitati, il primo generale e il secondo esecutivo, incaricati di promuovere la manifestazione, che si sarebbe tenuta pochi mesi dopo facendo seguito alle due precedenti, svoltesi nel 1871 e nel 1886. Il sindaco Gerolamo Garoni, il presidente della Camera di Commercio Enea Torelli e il presidente del Consorzio agrario Giuseppe Speroni firmarono la circolare istitutiva. Ma subito s’accesero le polemiche tra repubblicani e moderati.
I primi accusavano i secondi –forza di maggioranza nell’amministrazione municipale- di voler monopolizzare le nomine d’entrambi gli organismi, che denunziavano una singolare pletoricità (già allora: cambiano i tempi, non i costumi/1): ventuno i componenti del comitato esecutivo, addirittura centotrentatré quelli del comitato generale. Poltrone cui ambivano imprenditori, professionisti, commercianti, esponenti di varie categorie socioeconomiche, oltre naturalmente ai rappresentanti della folta classe politica (è sempre stata folta: cambiano i tempi, non i costumi/2). Tutti se la prendevano con tutti, affermando di volere il bene della città. Ma il confronto buttò male, al punto di volgersi in rumorosa frattura. Finì che i repubblicani, o comunque quanti simpatizzavano per l’area radicale avversa al conservatorismo, lasciarono con sdegno i pochi posti loro riservati. Se ne andarono personalità di lustro (così di lustro da meritarsi una successiva intitolazione di strade) come Ferruccio Bolchini, Giulio Macchi, Rinaldo Arconati, Federico Della Chiesa. Nonostante questo, l’iniziativa riuscì a decollare, articolandosi in nove settori: industrie estrattive; industrie chimiche ed affini; industrie meccaniche; industrie manifatturiere; economia rurale, orticola, forestale e zootecnica; previdenza ed assistenza pubblica; didattica; arte antica, storia ed arti industriali; sport.
L’11 agosto -ecco la ricorrenza che capita oggi, e merita il refresh- a inaugurare gli stand (chiamati “gallerie”) distribuiti ai Giardini Estense di fronte al palazzo di Francesco III vennero il Duca degli Abruzzi e il ministro Prinetti. Ali di folla, entusiasmo, spettacolarità, stupore, orgoglio: Varese fece gran festa. La chiusura si celebrò il 20 ottobre. Dire si celebrò è esercitare professione di realismo: il successo infatti risultò tale da ricomporre i dissidi e perfino il “Cacciatore delle Alpi”, giornale dei repubblicani, arrivò a scrivere che “…il parterre, il toboggan, il caffè-ristorante sono sempre affollati da una popolazione gaia e multiforme; e il recinto dell’Esposizione può ben dirsi che sia stato tramutato, per opera del solerte Comitato, in vero paradiso terrestre, eden di delizie spirituali e di morale conforto”. Non fu solo un eden casereccio. L’Expo varesina transitò dai sofferti triboli locali alla meritata ribalta nazionale. Fece conoscere nome e prodotti bosini, conquistando nuovi mercati, lanciando il turismo verso un’epoca d’oro (1901-1913) non più replicata, innalzando la nostra terra a un rango poi perduto.
Ricordare, più che un’occasione storica, appare un dovere civico/morale, soprattutto adesso che si apre una stagione d’inedita reggenza amministrativa. L’assessore alla Cultura Roberto Cecchi garantisce massimo impegno e sicura competenza per restituire a Varese la bellezza di cui un tempo s’ammantò e che i tempi successivi s’incaricarono di sbiadire sino a farcene perdere memoria: l’eredità del passato gli sarà di supporto per il futuro.