«Io licenziata grazie al Jobs Act»

La Prealpina -

Trovare lavoro, e perderlo, grazie al Jobs Act. Niente di più facile. È la storia di tanti, è la storia di G.P., brillante quarantenne varesina abituata a cambiare professione, a rimettersi in gioco, ad accettare nuove sfide nel campo delle vendite internazionali. Fino a quando la sua strada non si è incrociata con le nuove normative sul mercato del lavoro varate ai tempi del Governo Renzi. Un cambiamento voluto teoricamente per aumentare la flessibilità favorendo così il ricambio, «anche se la nostra società non è preparata a livello culturale», racconta lei stessa. «Oggi non ci sono molte garanzie nemmeno con un contratto a tempo indeterminato, nemmeno in aziende sane e che assumono: basta il cosiddetto “giustificato motivo oggettivo” per essere lasciati a casa senza preavviso, con una minima indennità. Alla base ci possono essere strategie diverse, contenimento dei costi, scomparsa della mansione. Così è successo a me come a diverse persone che conosco: e mi sono trovata senza lavoro all’improvviso, con l’ansia di dover cambiare tutto, tenore di vita, abitudini, progetti. Nel caso dei dirigenti, che entrano con regole d’ingaggio fiduciarie, questi inconvenienti sono prevedibili, anche perché coincidono con stipendi altissimi e buonuscite, ma i quadri seguono il contratto collettivo. E quindi hanno solo l’indennità di mancato preavviso e la Naspi, la disoccupazione».

Da quel momento inizia un piccolo-grande calvario, fatto di curriculum, contatti con i Centri per l’impiego, iscrizioni a decine di agenzie fra Italia e Svizzera. Per ora non si muove nulla, anche davanti a competenze di alto livello e conoscenza di lingue e tecnologie. Tante altre storie simili si ripetono dal territorio: sempre con la stessa modalità e velocità traumatica. Da un giorno all’altro la vita può cambiare. Ma questa disavventura non è capitata a una persona “all’antica”, convinta cioè che il contratto sia sacro, eterno e inviolabile.

«Ho cambiato spesso lavoro, ho girato l’Europa e mi sono anche trovata dall’altra parte, dovendo gestire ristrutturazioni – continua lo sfogo -. È legittimo poter cambiare il personale, è sacrosanto che ci sia questo diritto, ma le aziende ora hanno più libertà in uscita».

Non tutti, insomma, utilizzano questi nuovi strumenti per un vero motivo oggettivo, ma solo per avere “mani libere”.

«Il Jobs Act, nelle intenzioni, è stato pensato per far entrare nel sistema con maggior flessibilità, ma questo stesso sistema non è adatto, perché prima non sono state attuate le corrette procedute nel mercato del lavoro. Oggi il licenziamento è immediato, si ottiene solo il dovuto come il Tfr e si fanno le valigie. Entro 60 giorni puoi impugnare ma non tutti ne hanno voglia. Con le vecchie tutele potevi contare su 12 mensilità e c’erano più paletti».

E poi? Si aderisce al progetto dei Centri per l’impiego per l’obbligo formativo, «anche se scopri che ci sono pochissimi fondi e ti spiegano magari come mandare un curriculum, senza informazioni concrete sulle reali possibilità di reinserimento, pur con tutta la gentilezza e la disponibilità degli addetti in ufficio. Io ho lavorato con la Germania e gli altri Paesi europei, dove veramente il sistema funziona e quasi tutti sono occupati. Perdere il posto e trovarlo in poco tempo lì è normale. In Italia no. Se risulta che sei stato lasciato a casa sei visto con sospetto e il colloquio non è così facile. Il mercato è ingessato, altro che flessibile. Magari risolverò il problema a breve, lo spero, ma intanto mi sono accorta che il nostro Paese non è preparato a queste novità. Siamo conservatori, se devi chiedere un mutuo in banca non viene richiesta la flessibilità. Ora il mio lavoro è cercare un lavoro».

 

La Cgil: «Contrari fin dall’inizio»

 «Noi l’abbiamo detto fin dal primo momento: si conferma una situazione grave, c’è bisogno di trovare soluzioni per garantire nuove vie di occupazione stabile ai giovani». Lo sottolinea Umberto Colombo (nella foto), segretario generale provinciale della Cgil, che ribadisce e motiva la contrarietà originaria al Jobs Act, varato dal Governo Renzi nel 2015.

«La disoccupazione giovanile rimane alta anche nella nostra provincia e da subito abbiamo fatto notare la nostra preoccupazione perché ogni nuova norma deve associarsi sempre alle tutele e ai diritti fondamentali – prosegue Colombo -. Queste segnalazioni dimostrano i limiti del contratto a tutele crescenti: l’eliminazione dell’articolo 18 ha leso l’architrave del nostro sistema che impediva proprio i licenziamenti senza giustificato motivo». Chi difende il Jobs Act ribadisce però che c’è stato un boom di assunzioni.

«Anche in questo caso abbiamo fatto notare da tempo che si tratta soprattutto della forza degli incentivi per i datori di lavoro – continua il numero uno varesino dell’organizzazione -. Infatti appena le agevolazioni sono terminate sono terminate anche le assunzioni. È vero: i dati ufficiali della provincia di Varese parlano di disoccupazione in calo, ma in realtà su dieci avvii nove sono a tempo determinato e solo uno senza scadenza. Parlare di tutele crescenti significa di fatto non dare affatto tutele. Si assume facilmente ma soprattutto facilmente si licenzia. Ecco perché rinnoviamo la nostra battaglia per la carta dei diritti universali del lavoro. Oggi più che mai».

I consulenti: «Difficile ricollocarsi»

 

«Il problema vero è che mancano percorsi efficaci di riqualificazione e reinserimento dei lavoratori licenziati». Ad affermarlo è la presidente dell’Ordine dei Consulenti del lavoro di Varese, Vera Stigliano. «Prendersela con il Jobs Act – aggiunge – significa strumentalizzare la questione distogliendo l’attenzione dal nodo fondamentale che non è la perdita del lavoro, ma la concreta possibilità di trovarne un altro».

Secondo la presidente dei Consulenti la nuova legge risponde all’evoluzione del mercato del lavoro italiano ed europeo, dove il posto fisso va scomparendo. «In questo contesto il Jobs Act ha il merito di quantificare a priori il danno dovuto dalla perdita del lavoro, evitando tempi lunghi, costi e incertezze dei contenziosi in Tribunale», spiega. A creare disagio è invece l’inadeguatezza delle politiche attive che dovrebbero accompagnare chi perde il lavoro.

«L’assegno di disoccupazione ha cambiato nome ma non sostanza – spiega la Stigliano – e mancano efficaci percorsi di riqualificazione, indispensabili a tornare competitivi sul mercato e trovare così una nuova occupazione».