Fontana rilancia la Zes «Sul confine ha senso»

La Prealpina - 27/03/2022

Nulla cambia per gli attuali frontalieri. Tutto cambia per quelli futuri. A quasi cinquant’anni di distanza, l’accordo fiscale tra Italia e Svizzera è alla vigilia di un “tagliando”. Va in pensione un patto che ha portato ricchezza di qua e di là dal confine. Quello nuovo riuscirà a proseguire in questo solco, mutando pelle? Se n’è discusso ieri mattina a Ville Ponti di Varese, dove sono stati coinvolti tutti gli attori protagonisti: politici, amministratori locali, sindacati.

Entrando nella carne dell’argomento, in Italia la nuova impostazione toccherà i circa 75.000 frontalieri che, ogni giorno, da Lombardia e Piemonte vanno a lavorare, come pendolari, in Svizzera: «Chi è frontaliere oggi e, magari sarà licenziato e poi riassunto in Svizzera – ha detto il senatore del Partito democratico Alessandro Alfieri – avrà le stesse regole di adesso. Il nuovo sistema varrà, quindi, soltanto per i nuovi frontalieri e, se l’iter parlamentare proseguirà come previsto, si partirà con il 2023. Questo nuovo patto riequilibra la situazione e permette di compiere un salto di qualità» anche per salvaguardare «le relazioni tra i due Paesi». Notoriamente, infatti, la Svizzera sta cercando in tutti i modi di bloccare l’aumento dei frontalieri. E, probabilmente, si era arrivati a un punto di saturazione non più sopportabile. Di conseguenza, come si fa in politica, si è trovato un compromesso. I nuovi frontalieri saranno tassati di più, ma l’extragettito non finirà in un calderone alla “romana”. Alfieri, infatti, ha parlato di fondi di circa «230 milioni di euro» su cui ci sarà una sorta di esperimento di «federalismo fiscale a favore di infrastrutture e dello sviluppo socio-economico delle aree entro i 20 chilometri dal confine».

Insomma, la bontà dell’accordo si giocherà sul benessere generato da questa gran quantità di soldi. «Dobbiamo capire – ha concluso Alfieri – come usare queste risorse. Per esempio per progetti sovracomunali, per pagare l’asilo nido ai frontalieri o per abbattere l’imposizione locale».

All’interno di questo scenario, Attilio Fontana ha rilanciato l’idea della Zona economica speciale: «Ci si deve battere per ottenere la Zes – ha affermato il presidente della Regione Lombardia – perché solo nelle zone di confine ha un senso. In Sicilia non serve, perché è uno strumento che deve favorire un territorio dove ci sono situazioni di disparità, come il nostro. Inoltre va eliminato il limite del 4% di frontalieri residenti in un Comune come soglia per ottenere i ristorni: questi soldi non devono servire per tenere in piedi i bilanci delle Province e delle Comunità montane, ma bisogna che siano una fonte di investimento sul territorio».

Mentre Massimo Mastromarino, presidente dell’Associazione Comuni italiani di frontiera, ha ricordato le richieste del territorio, ovvero «che si garantiscano in via strutturale ai Comuni di frontiera gli 89 milioni di euro, attraverso trasferimenti dallo Stato in conto capitale e in parte corrente (nel limite massimo del 50% dell’importo annualmente attribuito) e che si finanzino progetti di sviluppo economico e sociale nei Comuni dell’area di frontiera, a valere sulle eventuali maggiori entrate derivanti dall’applicazione dell’accordo, attraverso l’istituzione di un fondo, oltre al potenziamento delle infrastrutture nelle zone di confine».

Si eviterà il salario dimezzato

L’accordo del 2015, stracciato e che oggi tutti criticano, fu bloccato anche grazie a loro. I rappresentanti dell’associazione Frontalieri Ticino furono i primi a mettersi di traverso pubblicamente rispetto a quel testo, organizzando anche il “Fronta-day”, la prima storica manifestazione dei frontalieri che, a Lavena Ponte Tresa, richiamò centinaia di persone. In quell’occasione, decine di lavoratori che temevano il dimezzamento del salario, misero “spalle al muro” i politici intervenuti e, di fatto, quel momento risultò fondamentale a dare una spallata all’accordo fiscale tra Italia e Svizzera che avrebbe tassato di più i frontalieri. Non solo quelli di domani, ma anche quelli già impiegati in terra rossocrociata.Oggi, invece, seppure con qualche vena critica, secondo il presidente dell’associazione Massimiliano Baioni, «l’accordo è il migliore che si potesse spuntare, anche se alcuni punti sono ancora da chiarire. Comunque la macro-questione resta tuttora sul tavolo: se oggi un magazziniere frontaliere porta a casa 4.000 franchi al mese di stipendio, domani, con una tassazione pressoché uguale a quella italiana, in tasca gli rimarrà molto meno. E anche una franchigia di 10.000 euro di no-tax area rappresenta qualcosa di esiguo che, sostanzialmente, aiuterà soltanto i pensionati. Insomma: bisogna fare di più perché ricordo che chi lavora in Svizzera, per esempio, può essere licenziato molto più facilmente». Di fronte a questi stipendi “sgonfiati” dal fisco, il territorio sarà avvantaggiato o no? I meno soldi nelle tasche dei singoli cittadini, ma che daranno vita a un extra-gettito da utilizzare nelle aree entro i 20 chilometri dal confine, creerano un meccanismo virtuoso come quello generato dall’accordo del 1974? Purtroppo la risposta a questa domanda si saprà, come minimo, tra un ventennio. Infine, ha concluso Baioni, interpellato a margine dell’incontro, «dobbiamo rilevare che, nonostante la nostra presenza e attività pluriennale sul territorio, non siamo stati coinvolti o interpellati negli incontri di questi ultimi mesi. Anche se, è giusto dire che il senatore Alessandro Alfieri ci ha sempre tenuti informati».

«L’aggravio nei tributi favorisca maggiori tutele»

Anche i sindacati hanno applaudito il nuovo accordo nel merito e nel metodo che si è percorso, pur anticipando l’intenzione di voler affrontare, prossimamente, anche altri argomenti: «Ora – ha detto Raimondo Pancrazio di Uil – il momento è favorevole anche per pensare a uno Statuto dei frontalieri». Dove, per esempio, «l’aggravio fiscale previsto col nuovo accordo – ha puntualizzato Luca Caretti di Cisl – deve servire anche per aumentare le tutele dei lavoratori. In caso di licenziamento, infatti, non è possibile rimanere con un massimale di disoccupazione di 1.300 euro, quando un lavoratore svizzero arriva a una copertura fino all’80%. Finalmente, però, dobbiamo rilevare come, per la prima volta, i frontalieri hanno ottenuto una rilevanza a livello nazionale. In tal senso sono stati compiuti dei passi in avanti, dando vita a un clima che ci permette di essere più ottimisti rispetto al passato».

Anche perché, come sottolineato da Giuseppe Augurusa della Cgil, «ora anche gli altri problemi che dovranno essere affrontati potranno essere discussi in un contesto italo-svizzero di cooperazione, quindi, con maggiore collaborazione e serenità rispetto ai dissidi degli anni precedenti».

Come emerso in più interventi, infatti, sul tavolo restano gli snodi del frontaliere in telelavoro, della revisione degli assegni famigliari oltre a quello, forse impossibile da risolvere, della mobilità, con i paesi a cavallo della frontiera strozzati dal traffico quotidiano.